Atlante delle mafie (vol 1) by Enzo Ciconte & Francesco Forgione & Isaia Sales

Atlante delle mafie (vol 1) by Enzo Ciconte & Francesco Forgione & Isaia Sales

autore:Enzo Ciconte & Francesco Forgione & Isaia Sales [Ciconte, Enzo & Forgione, Francesco & Sales, Isaia]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Rubbettino Editore
pubblicato: 2012-12-26T23:00:00+00:00


2. PROCESSARE LA MAFIA IN UNO STATO DEMOCRATICO

Nelle moderne democrazie il processo aspira a essere uno strumento neutrale di accertamento della verità. Non può essere utilizzato per ratificare decisioni assunte altrove, attraverso giurisdizioni o riti speciali. La nostra Costituzione vuole un controllo di legalità esercitato senza distinzioni di censo e vuole anche un processo giusto, uguale per tutti nell’assicurare la presunzione di non colpevolezza. Contrariamente a quanto accadeva ai tempi del prefetto Mori, quando i famosi processi ai mafiosi erano celebrati nel pressoché totale disprezzo delle garanzie, lo stato di diritto non può rinunciare a tale principio.

Tuttavia, fermi restando i valori fondamentali espressi nella «legge suprema», occorre fare i conti con la realtà e i momenti di «emergenza mafiosa» che l’Italia ciclicamente rivive. La cronaca giudiziaria degli ultimi trenta anni fornisce indicazioni chiare. Quando si procede per fatti riconducibili a Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta, il processo penale non è un terreno neutro o scevro da condizionamenti. È piuttosto uno dei numerosi terreni su cui si misura la forza di una associazione che contende allo Stato il monopolio della violenza su un certo territorio.

Per gli «uomini d’onore», l’impunità più che un obiettivo funzionale costituisce uno dei principali obiettivi strategico-strutturali. L’impunità dimostra la forza e il prestigio dell’organizzazione, rinsalda il vincolo tra associati, impedisce pericolose defezioni (pentimenti) e consente la sopravvivenza nello scontro con altri gruppi criminali. Solo l’impunità preserva i proventi illeciti, altrimenti aggrediti dalle confische giudiziarie, lasciando intatta la capacità di influenzare mercati legali e illegali.

La posta in gioco nel processo è altissima, dunque. Ciò ha portato le «mafie storiche» e quelle moderne, innanzitutto, a iscrivere programmaticamente nei loro disegni complessivi l’impegno a non lasciare tracce dei delitti. Quell’impegno è stato elevato a scienza. L’arma utilizzata per un certo fatto di sangue viene distrutta, per evitare comparazioni con altri episodi di fuoco. Le auto o le motociclette impiegate nell’azione delittuosa sono rubate e quei veicoli vengono immediatamente incendiati dopo il misfatto per impedire il rilevamento di micro-tracce. I testimoni oculari sono sistematicamente minacciati. Le vittime dell’omicidio, talvolta, vengono sciolte nell’acido.

Non solo. Quando le prove del delitto esistono, occorre disperderle, devitalizzarle, renderle inefficaci. Così la storia dei clan mafiosi è costellata dai tentativi di «aggiustamento dei processi» e da depistaggi. I «pentiti» riferiscono di risorse investite per intimidire testimoni, cancellare prove, «avvicinare» politici, corrompere e uccidere giudici. E proprio quella logica, nel 1996, porterà persino alla soppressione di un adolescente di dodici anni, che aveva la sola colpa di essere figlio di Mario Santo Di Matteo, all’epoca collaboratore di giustizia.

Sono indicazioni che rendono riduttivo un esame delle «criticità» del contrasto giudiziario alle mafie condotto solo attraverso la «lente di ingrandimento» del garantismo. In altri termini, le possibili «patologie processuali» non ruotano esclusivamente intorno al binomio autoritàindividuo; al conflitto dialettico tra le esigenze di difesa sociale e diritto dei singoli alla libertà; alle possibili deviazioni dell’apparato pubblico. Il legislatore e il giudice sono chiamati ad affrontare nuove sfide. Il crimine organizzato vanta simmetriche deviazioni che incidono in termini di inquinamento e soppressione



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